Questa psicoterapeuta vuole che valutiate il vostro rapporto con la natura – ChangeMaker Sophia Betrò

Sophia Betrò, medico, psichiatra e psicoterapeuta in analisi transazionale socio-cognitiva, si occupa principalmente di disturbi dell’umore (quale depressione ed i disturbi bipolari), di psicosi e disturbi d’ansia. Ma negli ultimi anni si è interessata dell’effetto del cambiamento climatico sulla salute mentale, pubblicando insieme a noti colleghi uno dei primi studi pionieristici sull’impatto del riscaldamento globale sulla salute mentale e, successivamente, un articolo sulle “eco-emozioni” o “sindromi psicoterratiche”, insieme a un’argomentazione accademica sulla necessità fondamentale di rimodellare la valutazione della salute mentale nell’era del cambiamento climatico.

Ci siamo seduti a parlare insieme a lei per indagare il tema. In questa intervista della serie Changemaker, Betrò ci spiega l’importanza di questa specializzazione, i pericoli della disconnessione dalla natura e dall’altro, e come affrontare la nostra ansia di fronte al collasso climatico.

La serie ChangeMaker di SuperNaturale presenta individui che generano cambiamenti positivi. Raccoglie i consigli e le idee di leader con visioni ambientali e sociali avanzate, impegnati ad affrontare i problemi più urgenti di oggi.

Dottoressa Sophia Betrò

 

Come sei arrivata a questa specializzazione specifica nelle eco-emozioni e l’impatto del clima sulla psicologia?

C’è la parte professionale che è nata da delle riflessioni con i miei colleghi. Con il gruppo con cui ho pubblicato gli articoli ci siamo interrogati sulla novità di questo fenomeno, che stava arrivando, e in cui ci saremmo confrontati come specialisti della salute mentale. Poi c’è la parte più personale quando uno è portato verso determinati argomenti rispetto ai suoi interessi: rispetto al clima, al cambiamento climatico, all’ambiente, è un interesse che ho sempre avuto a livello delle piccole cose, come pratiche quotidiane. Sono vegetariana dal 2010 perché ho iniziato a interessarmene, poi quando uno inizia a studiare e prendi consapevolezza qualcosa ci devi fare di questa consapevolezza! Non puoi far finta di niente.

Sentivi anche una spinta dai tuoi clienti, che fosse una esigenza loro?

No, dai clienti meno, era proprio un mio interesse personale. Ero curiosa e volevo interessarmi di più di questo tema.

Nel lavoro tuo e dei tuoi colleghi si parla del fatto che il nostro tempo storico è definito come “l’età dell’ansia”. Durante la storia dell’umanità le società e gli individui hanno sperimentato guerre, lunghi periodi di conflitto, emergenze, pandemie, ecc. che avranno certamente causato ansia, anche di gruppo (si pensa in particolare alla corsa agli armamenti nucleari).
Cosa rende la crisi climatica diversa da altri driver? Ovvero, perché l’ansia associata al degrado ambientale merita un approccio specifico rispetto ad altri driver storici?

Allora faccio una premessa: quando parliamo di ansia si intende sempre qualcosa di negativo, ma l’ansia non è negativa di base. È un’emozione che noi proviamo che ci dà delle informazioni; quindi, l’ansia in realtà è molto utile. Naturalmente uno ha da gestirla e da sapere come indirizzarla, ma non tutta l’ansia è nociva. Nello specifico l’ecoansia non è patologia: non è classificata come patologia e non è patologica. Però lo diventa quando diventa invalidante, come tutte le emozioni. Se è invalidante allora lì si crea un problema e bisogna intervenire.

Posto questo, nel presente momento storico, quello che succede a livello di cambiamento climatico ha un impatto diverso rispetto ad altri eventi che sono capitati nel passato, secondo me per due motivi. Il primo è la globalizzazione: è qualcosa che coinvolge ogni aspetto della vita, tutto il globo, tutto nello stesso momento. Mentre in passato magari le guerre erano localizzate, i collassi della società erano di una società specifica, in questo momento  il cambiamento climatico comprende tutto il pianeta, è un evento globalizzato.

E il secondo elemento è che è più pervasivo. Altri eventi sono un po’ più focalizzati nel tempo, hanno una durata, così come la pandemia in realtà ha avuto una sua durata, un inizio e, anche se non lo pensavamo, c’è stato anche una fine! Con il cambiamento climatico no – è qualcosa che sta andando avanti da tanto tempo, i cui studi ci sono da diversi anni, e che continuerà anche nel tempo, andando sempre a peggiorare se non facciamo qualcosa.

Quindi è qualcosa che esiste nel tempo in maniera duratura, così come comprende tante persone contemporaneamente, con delle sfumature diverse a seconda di dove ti siedi geograficamente perché l’impatto è diverso ma siamo tutti coinvolti, questo è innegabile.

Bene, cercherò di utilizzare questa logica come giustificazione quando la generazione dei nostri genitori mi paragona le preoccupazioni per il clima con un ‘eh si ma nella mia epoca c’era questo’–

Prima non c’era tutta questa informazione. Adesso io so cosa succede nel villaggio in India, prima magari non sapevo neanche cosa succedesse nel paese accanto a mio. Quindi anche questo circolo di informazioni, è buono perché sai tante cose, ma dall’altro lato sai veramente tante cose, troppe cose.

Ecco, una domanda specifica su tutta questa sapienza che accumuliamo – può sembrare che più si legge la scienza più ti informi sugli eventi climatici e le tendenze verso le quali stiamo precipitando, più ci si possa arrabbiare, ansiare, intristire. Le persone più ansiose, che stanno più male che conosco, incluso me stessa, sono quelle che hanno a cuore la natura, che sono molto informate e appassionate.
In relazione a ciò, diversi influencer e attivisti sul clima, mi viene in mente Clover Hogan, Naomi Sheehan, parlano spesso di distacchi brevi dalla realtà, di astenersi dal leggere notizie sul clima, di concedersi una pausa. Pensi che ci siano dei vantaggi nel rimanere ignoranti?

Beh…

O meglio, come consigli di trovare un equilibrio tra l’essere informati e il non essere sopraffatti?

Sì, è quello, è proprio trovare l’equilibrio: è buono informarsi ma può diventare un ‘vedo solo notizie negative’. Io faccio l’esempio con la pandemia, perché forse è quello più fresco, ma anche quello più impattante. Quando ci davano notizie – i morti, e le chiusure, ecc. ecc. – uno non ce la faceva più, aveva proprio bisogno di distaccarsi. Informarsi è importante ma bisogna anche tenere a presente varie cose, tra cui anche le notizie positive, le azioni che si stanno prendendo, le lotte e le cause che si stanno vincendo.

Non è funzionale rimanere ignoranti, assolutamente no, però informarsi bene si. Cioè, evitare di rimanere in una bolla di negatività, in cui le informazioni che ti arrivano sono solo i disastri o che le cose non vanno bene. Succedono anche tante cose positive ed è quello che condivido spesso sui miei social, proprio perché le notizie positive sono quelle che ci aiutano di più ad affrontare questo momento.

Eco-ansia, per usare un termine ombrello: si tratta di una paura cronica o panico intenso legata a un peggioramento continuo riguardo al disastro ambientale. Hai un approccio diverso per le generazioni più giovani, cioè per chi si prevede un’esposizione maggiore ad eventi e di informazioni angoscianti nel corso della loro vita?
C’è una fascia d’età specifica per la quale ritieni che il trattamento dell’ansia ecologica sia più appropriata?

Alla fine, tutti ne sono influenzati. Però ognuno lo vede in maniera diversa, anche rispetto all’età e alla generazione a cui appartiene.

I giovani ne parlano tanto, se lo sentono proprio tanto e me lo portano spesso come pensiero. Ma in generale noto che lo stigma rispetto alla psicoterapia è molto minore – tanti giovani sentono che c’è bisogno di aprirsi e lo fanno. Però l’approccio psicoterapeutico cambia da persona a persona, rispetto alle proprie risorse e da cosa sperimenta una persona quando parla di cambiamento climatico. C’è chi si abbatte di più e chi è un po’ più combattivo, che lo prende come risorsa. Quindi no, non ho un approccio rispetto alla generazione ma più rispetto all’individuo e quello che mi porta in terapia.

Una domanda personale – io, come tante persone che si interessano di natura finiscono in ambienti di sinistra. All’interno di questi movimenti, questi gruppi sociali, trovo anche persone piuttosto anarchiche o nichiliste davanti a questo imminente potenziale catastrofe.  Tu come rispondi a coloro che ricorrono all’anarchismo o al nichilismo? Al ‘tanto moriremo tutti’ o persino, ‘meglio se moriamo tutti’ come cosiddetto meccanismo di coping?

Diventa puro fatalismo, no? Uno può generalizzare e dire ‘ma che vivi a fare? Tanto moriamo tutti.’ È un generale ‘che senso ha la vita?’ Invece questo tipo di risposta è una cosa molto personale, penso che se una persona arriva a sviluppare questo tipo di pensiero c’è qualcosa importante dietro, a livello di psicoterapia. Uno può avere questo tipo di mentalità perché non vede quali possano essere le alternative: al posto di fatalismo una risposta di ‘c’è anche altro, posso trovare senso in questo e attivarmi in questa maniera.’

Però lo tratto sempre come una cosa soggettiva. Mi viene difficile generalizzare perché siamo tutti diversi e mettere nella stessa categoria tutte le persone che la pensano così sarebbe sbagliato; ogni individuo poi ci arriva per un modo diverso, magari c’è una facciata di nichilismo ma sotto potrebbe esserci paura, tristezza, tutto un mondo…

L’articolo tuo e dei tuoi collaboratori esamina decine di terminologie diverse, dal climate grief, alla sostalgia, all’eco-colpa, alla disperazione climatica, ecc. In tutte queste, specificate la differenza tra tendenze ansiolitiche produttive, ovvero eco-emozioni che possono motivare l’azione e promuovere cambiamenti positivi, e tendenze ansiogene debilitanti, che invece possono portare alla disperazione, alla rassegnazione, a depressioni gravi, ecc.
Sia in ambito individuale che collettivo, come si può favorire una forma di ansia produttiva piuttosto che debilitante?

Sentire l’ansia, la tristezza o la paura rispetto al cambiamento climatico è normale. Ma posso utilizzare queste mie emozioni in maniera produttiva, e diversi studi lo hanno soprattutto a fare attivismo. Non deve essere andare nel corteo, può essere  (e spesso lo è) anche una cosa piccola: cambiare il modo di mangiare, fare attenzione a come mi sposto, avere consapevolezza sui prodotti che utilizzo, sul prendere la borraccia invece che la bottiglia di plastica. Oppure posso introdurre questi elementi pian piano nella mia cerchia di amici o nel mio lavoro; in ogni lavoro, in ogni settore c’è qualcosa che la persona può fare per incrementare, per dare quel contributo e adattarsi al cambiamento climatico. O all’inquinamento. Oppure all’utilizzo di plastiche!

Quindi riuscire sempre a trovare il modo con cui quell’ansia diventa un’azione pratica: che può essere individuale, personale, può essere collettiva, a livello della famiglia, del lavoro, o di gruppo con cui faccio delle azioni più mirate. Si può sempre estendere. E questo naturalmente fa bene sia per la persona, sia per l’ambiente.

Tutta questa nuova terminologia relativa alle nostre emozioni… ti preoccupi mai che, di fronte a termini come eco-ansia, trauma climatico, eco-emozioni, la vecchia generazione respinga questa scienza come una sciocchezza da “snowflake”, un sintomo di millennial piagnucolosi che hanno bisogno di super-diagnosticare tutto? Che li allontani?

Da una parte c’è sicuramente questa tendenza a dover categorizzare qualsiasi cosa – non parlo delle vecchie o nuove generazioni, ma proprio nella scienza attuale. Le sindromi sono state divise in tante sfaccettature, sembra che ci sia la necessità di quasi dare un’etichetta. È una tendenza generale che noto anche nell’ambito della salute mentale, come se si dovesse per forza patologizzare, quando a volte, certo, merita, ma a volte potrebbe non meritarlo: proprio perché dipende da persona a persona.

Rispetto alle generazioni invece, il divario che ci può essere con l’abitudine ad utilizzare questi termini. Può esistere anche rispetto alle nuove tecnologie, per esempio, ma ciò non vuol dire che anche loro non mi siano toccati. Basta pensare all’attivismo recente in Svizzera delle soprannominate “KlimaSeniorinnen” o ‘Nonne del Clima’. Questo mostra che tutte le generazioni possono prenderlo a cuore, non impatta solo i giovani. L’attivismo è per tutti – fra queste persone più grandi ci sono soprattutto gli scienziati che studiano questi fenomeni ambientali da tempo e non solo sono i più sapienti, spesso sono tra i più preoccupati. Quindi questo ‘gap’ generazionale lo leggo solo nell’abitudine di sentire nuovi termini, ma non nelle emozioni. E questo ci unisce.

Uno degli strumenti che discutete come strategia di coping è la capacità o meglio l’importanza “della comunità, la collettività, e dei meccanismi sociali”. Tuttavia, si sottolinea che le società occidentali sono sempre più isolazioniste. Si pensa agli hikikomori in Giappone. Come affronti questo dilemma nella tua terapia?

È vero, siamo tutti connessi: su internet, sui social, super connessi! Però è una connessione che rimane molto superficiale, e in questo caso (di eco-ansia) invece la persona ha bisogno di relazionarsi. Ha bisogno di connessioni vere e di relazioni autentiche – non sul cellulare, ma di stare a contatto con le persone. E questo è soprattutto importante rispetto ai giovani che stanno tanto sui social e magari fanno più difficoltà a costruirsi un’identità nel mondo. Queste relazioni sui social non sono false, ma rimangono un po’ più distaccate. Quindi esiste proprio questa realtà: siamo tutti connessi ma in qualche modo siamo tutti soli. Dipende sempre dall’individuo, però spingo spesso sul costruire delle relazioni autentiche, anche in gruppi di interesse, qualsiasi esso sia. Di trovare persone simili, di vedersi e di instaurare delle relazioni.

Hai visto la serie Extrapolations di Apple TV? (Si tratta di una rappresentazione narrativa hollywoodiana, ma molto ben studiata, dei prossimi 6 decenni, di come il cambiamento climatico avrà un impatto sulle società globali.)
Cos’è la tua opinione su questo genere di spettacolo che viene visto dal pubblico? Sui tipi di messaggi che le persone possono trarne?

È buono che si inizia a parlare e a vedere questi temi anche nell’ambito dell’arte, della creatività, dello spettacolo. Sono tutti modi con cui si comunica un determinato messaggio. Spesso gli artisti anticipano determinate cose che le persone devono ancora comprendere, sono dei precursori.

Soltanto che se ne parla poco; rispetto ai film ce ne sono veramente pochi e spesso trattano più il disastro, la catastrofe. Secondo me manca il fatto del vedere il cambiamento climatico come sfondo delle nostre vite, come sfondo a una narrazione reale – perché è la realtà, è quello che viviamo di giorno in giorno. Certo, c’è anche il disastro, però noi ci viviamo quotidianamente delle piccole cose che cambiano nella la nostra vita rispetto alle crisi ambientali. È quello secondo me che manca, inserire questa realtà nella narrazione, qualsiasi essa sia.

Quindi per te le storie del genere sono comunque positive? Ad essere sincera, a me hanno dato incubi e quando io ho i miei momenti più pesanti di ansia penso ad alcune delle scene che ho visto in quella serie.

Perché sono forti, quindi ti mettono davanti il lato catastrofico di quello che potrebbe capitare. Proprio per questo manca la parte di narrazione dello sfondo: non è sempre una catastrofe, però ce la viviamo.

Questo studio e il tuo lavoro parla di una nostra disconnessione dal mondo naturale. Alcuni antropologi, scienziati sociali osservano questo distacco come un fenomeno cominciato negli anni 50 che poi è aumentato. Puoi spiegarci meglio come un paziente potrebbe soffrire per questa disconnessione, e diversamente come potrebbe trarre beneficio da una riconnessione con la natura?

Ci sono proprio tantissimi benefici nello stare nella natura. Il distacco dalla natura è una sindrome… è LA sindrome da distacco della natura, è stata ipotizzata da Richard Louv negli anni 80. Allontanarci dal mondo naturale – una conseguenza dell’urbanizzazione – fa sì che noi siamo soprattutto chiusi dentro quattro mura. Che sia il lavoro, casa o la palestra, ci spostiamo da uno all’altro e si è stimato che passiamo il 90% del tempo al chiuso. Questo fa sì che stiamo sempre con le luci artificiali e non con quelle naturali, e abbiamo vissuto per millenni con la luce naturale! Il ritmo circadiano, che è quello che regola il ritmo sonno-veglia e determinati ormoni, si scombussola. Poi spesso in posti fortemente urbanizzati (e quindi) con inquinamento, l’aumento della CO2 regala una minor capacità di concentrazione e di attenzione, si abbassano i livelli di funzione cerebrale. Uno è meno pressante, riesce a funzionare meno a livello di attenzione. Stare chiusi e non al sole fa anche sì che la vitamina D tende a calare, ma questa è funzionale non solo per le ossa ma anche per l’umore.

Ci sono una serie di aspetti negativi nello stare maggiormente in luoghi chiusi, invece tanti aspetti positivi nel trascorrere del tempo all’aperto, che sia anche al parco, che sia il fine settimana fuori, che sia nel giardino. Stare all’aperto fa da regolatore a determinati ormoni che funzionano a livello di stress e livello dell’umore, ma anche, per esempio, a livello di ipertensione, del diabete, della capacità del corpo di ristabilirsi più in fretta rispetto a interventi chirurgici o a ferite. Passare del tempo in natura è funzionale per abbassare anche livelli di stress, di ansia e di disturbi del sonno. Tutto ciò è stato studiato.

Stare fuori permette anche una maggior capacità cognitiva e di attenzione soprattutto nei bambini, che invece adesso passano poco tempo fuori e sono per lo più chiusi in casa. Con i bambini è cambiato tanto anche il nostro modo di porsi con loro, tenendoli sempre stretti. Invece se hanno l’opportunità di essere più indipendenti, soprattutto in ambiti naturali, hanno la possibilità di annoiarsi, e poi di scoprire tutto quello che ha da offrire il mondo naturale e di formare una connessione con questa natura, la biofilia. Per tantissimo tempo ci siamo evoluti nella natura e solo più recentemente ci siamo chiusi dentro degli appartamenti, ma il nostro corpo non si è abituato così in fretta! C’è ancora bisogno e necessità di stare nella natura.

Però visto il probabile declino degli ambienti naturali, della qualità della loro acqua, aria, la loro biodiversità, questa disconnessione dalla natura è qualcosa che vedi come lavorabile o magari una triste sindrome di quello che ci sta capitando in questo periodo storico e potenzialmente sempre di più in futuro?

Cerco di vedere sempre la cosa positiva, quindi la vedo come lavorabile. Anche perché adesso c’è una lieve inversione di tendenza – tutti prima si spostavano in città, adesso molti invece cercano di uscire, ovviamente lavoro permettendo. Però il contatto con la natura si può sempre trovare. Se non si può fare, come detto, un’escursione il weekend o stare nel giardino, nel parco sotto casa, è utile anche soltanto avere le piante in balcone, coltivare qualcosa, una piantina di qualche tipo dentro casa – alle brutte, proprio brutte! Questo si è visto soprattutto negli studi durante il Covid, perché ovviamente non si poteva uscire.

A volte può essere d’aiuto nell’abbassare i livelli di stress persino avere in casa delle immagini di foreste o di ambienti naturali, quadri che rappresentano la natura. Oppure guardarlo in tv, guardare i canali su YouTube che trasmettono gli ambienti naturali; anche solo quello contribuisce a far passare un pochino il livello di ansia. Veramente, quando uno non ha nulla, può mettersi una pianta che sta bene dentro casa o un’immagine – anche solo una briciolina si può ricavare, e poi da lì uno inizia a costruire altro.

Il trattamento consigliato comprende altre cose incluso l’educazione ambientale, un diario riflessivo, listening circles, rituali di lutto di gruppo e le helpline telefoniche. Qualche consiglio su dove si possono trovare?

Molte cose in Italia stanno nascendo adesso, quello è il problema. Vanno molto negli Stati Uniti, al di fuori, anche in Giappone, ma in Italia stanno crescendo adesso. Ci sono per esempio i ‘Climate Café’, che sono delle riunioni online o di persona in cui si parla in maniera libera di tematiche ambientali. Sta nascendo anche sempre di più il ‘Forest Bathing’, i bagni nella natura, ritiri di qualche giorno che uno può fare in ambienti naturali proprio con un’intenzione consapevole di stare nella natura e quindi di prenderne i benefici – questi gradualmente stanno nascendo e si possono trovare più facilmente adesso anche online. Anch’io da internet e Instagram scopro cose nuove, il tutto sta nell’uscire fuori dalla bolla, i social tendono a riproporti le cose che già sai. Quindi, bisogna fare lo sforzo di uscire da quegli elementi ricorsivi e provare a cercare altro affinché ti arrivino tutta una serie di informazioni utili.

Torniamo alle classiche domande per i nostri Changemakers. Quando eri piccola cosa sognavi di fare da grande? Lo vedi rispecchiato in qualche modo in quello che fai oggi?

Io da piccola ho sempre detto che volevo fare il medico. Mi sono anche detta che potrei cambiare idea ma non l’ho cambiata! Pian piano ho trovato la mia strada e la mia specialità. Ho scelto di fare psichiatria anche perché mi incuriosiva proprio la mente umana, perché è qualcosa che si scopre, c’è sempre qualcosa da scoprire e da studiare. Questa mia curiosità che mi ha portato poi dove sono adesso e non so dove mi porterà – magari poi incrocerò altre strade, si creeranno cose che adesso non immagino. Così come all’inizio non pensavo di fare Instagram e poi è stata un po’ l’esigenza. Anche per gestire la mia ecoansia! Dicendomi che c’è qualcosa che posso condividere, e che magari a qualcuno può essere d’aiuto.

Quali senti che sono i maggiori ostacoli che hai incontrato cercando di promuovere la necessità di un nuovo approccio psicoterapeutico?

Forse quello che dicevo prima, del fatto che con i social ci sono tante informazioni diverse ma gli algoritmi tendono ad chiuderti dentro in una bolla: la difficoltà di uscire dal rumore di fondo e nel riuscire a divulgare più informazione possibile che possa arrivare a più persone diverse. Quello forse è l’ostacolo che incontro di più, perché finché non lo cerchi in qualche modo sei escluso.

Invece ti viene in mente qualche esempio di progetto particolarmente gratificante, appagante per te?

Anche se nel piccolo, la pagina Instagram che ho fatto. Sono uscita dalla mia comfort zone, però era qualcosa che sentivo di voler fare, qualcosa di totalmente nuovo. Sono ancora all’inizio, ma è un progetto nuovo che mi piace e vorrei dedicargli più tempo. Mi piace come progetto perché grazie a lui ho potuto conoscere persone, altri colleghi che si occupano di questi temi, ho trovato e creato una rete che non pensavo possibile.

Hai qualche ultima parola che vorresti che i lettori si ricordassero?

Sottolineare questo, che è la cosa che mi preme di più anche rispetto al mio ambito lavorativo: che l’ecoansia non è solo una cosa negativa, non c’è solo l’aspetto negativo, non è vero che se uno ha l’ecoansia significa che soffre di ecoansia e basta. Io posso sentire determinate emozioni ma decidere proprio di lavorarci con queste emozioni perché sono utili. Se le sento è un messaggio che mi sta arrivando: non è vero che è soltanto una cosa negativa l’ecoansia, come anche a tutte le emozioni climatiche. Posso decidere come utilizzarle e come sfruttarle per il meglio, per far sì che sto meglio io, contribuisco anche all’ambiente, scoprendo risorse che non pensavo di avere.

 

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Intervista: Anna Pasolini
Immagine copertina: Rudolf Jakkel via Pexels